SUBITO
DOPO L'8 SETTEMBRE
8 SETTEMBRE 1943: L’”INGANNO RECIPROCO”.
COME LA MARINA FU TRADITA
Elio Lodolini
1) 8 settembre: la flotta italiana
pronta all'ultima battaglia
“La mattina del 7 settembre
(1943) -scrisse l'ammiraglio Raffaele de Courten, ministro della Marina
nel governo Badoglio e Capo di Stato Maggiore della Regia Marina, in una
relazione datata 12 febbraio 1944- ebbi con l'ammiraglio Bergamini, comandante
in capo della Squadra da battaglia, giunto a Roma per la riunione da me
convocata, un colloquio sullo spirito della Flotta. Ebbi da lui piena ed
esplicita assicurazione che la flotta era pronta ad uscire per combattere
nelle acque del Tirreno meridionale la sua ultima battaglia. Mi disse che
comandanti ed ufficiali erano perfettamente consci della realtà
cui sarebbero andati incontro, ma che in tutti era fermissima la decisione
di combattere fino all'estremo delle possibilità. Gli equipaggi
erano pieni di fede e di entusiasmo. L'addestramento aveva fatto negli
ultimi tempi buoni progressi. Gli accordi presi con l'Aeronautica italiana
e con quella tedesca e le esperienze compiute davano buon affidamento di
poter finalmente contare sopra una discreta cooperazione aeronavale. Egli
confermava che, intervenendo ad operazione di sbarco iniziata (1) e traendo
profitto dall’inevitabile crisi di quella delicata fase, sarebbe stato
possibile infliggere al nemico gravi danni. Ricordo questo colloquio con
commozione perché dalle parole di quell’uomo vissuto sempre sulle
navi e per le navi emanava senza alcuna iattanza la tranquilla sicurezza
di poter chiedere al potente organismo nelle sue mani lo sforzo estremo
e il sacrificio anche totale”(2).
L'armistizio era stato
firmato quattro giorni prima, il 3 settembre 1943, ma la Squadra italiana
da battaglia, del tutto all'oscuro di quanto veniva operato alle spalle
dei soldati italiani, era pronta al combattimento ed all’estremo sacrificio.
È da notare
che la relazione dell’ammiraglio de Courten reca la data del 12 febbraio
1944, cioè di un periodo cruciale in cui l’Italia era divisa in
due e de Courten ricopriva in quello che fu detto il “Regno del Sud” la
carica di ministro della Marina del governo Badoglio. La relazione nella
quale egli sottolineava lo spirito battagliero, l’elevato morale e l'efficienza
bellica della nostra flotta, pronta ad immolarsi per contrastare il nemico
angloamericano, costituisce quindi un documento di grande obiettività
ed anche un atto di coraggio, in quanto gli altri protagonisti di quel
periodo, schieratisi dalla parte del nemico ed anzi corresponsabili del
capovolgimento di fronte, hanno sempre tentato di giustificare il loro
operato con affermazioni di segno opposto, quali l'inadeguatezza delle
forze italiane, la scarsità di mezzi, la mancanza di spirito combattivo
dei nostri soldati.
Non può tuttavia
escludersi che egli abbia sottolineato alcuni avvenimenti piuttosto che
altri, atteso il momento in cui la relazione è stata redatta. Anche
così, tuttavia, ed a maggior ragione, la relazione de Courten costituisce
un valido documento sullo spirito combattivo della Marina italiana e sullo
stato d'animo di comandanti ed equipaggi.
Ancora dalla relazione
de Courten: la mattina dell'8 settembre, “essendo giunta conferma dell’iniziato
sbarco degli anglo-americani nel Golfo di Salerno, dopo aver preso contatto
con il Capo di Stato Maggiore Generale, ordinai alla Squadra da battaglia,
a La Spezia, di accendere, tenendosi pronta a muovere dalle 14, per il
previsto intervento offensivo nella zona di sbarco la mattina del giorno
successivo (9 settembre 1943) e disposi perché fossero perfezionati
e messi in atto gli accordi presi con le aeronautiche italiana e tedesca
per la cooperazione aerea”(3).
2) Trattative e vicende
dell'armistizio
Abbiamo tratto le citazioni
che precedono, così come quelle, che riportiamo più avanti,
di altri documenti (taluni dei quali già da tempo noti ed altri,
invece, assai meno noti, per lo meno in Italia) da un recente volume di
Elena Aga Rossi, dal titolo “L’inganno reciproco” ed il sottotitolo “L'armistizio
tra l’Italia e gli angloamericani dell'8 settembre 1943”, edito da “Il
Mulino” con il patrocinio dell'Amministrazione centrale degli Archivi di
Stato italiani (Ministero per i Beni culturali e ambientali)(4).
Con l'espressione “inganno
reciproco” l’autrice allude ai negoziati fra rappresentanti italiani e
angloamericani (i primi contatti, come è noto, risalivano ai primi
di agosto). A Lisbona, il 19 agosto, l’inviato italiano, gen. Castellano
“sostenne che il suo governo voleva un rovesciamento dell’alleanza e un'attiva
collaborazione dell’esercito italiano alla lotta contro i tedeschi dopo
lo sbarco alleato”, mentre, secondo la Aga Rossi, il governo Badoglio non
avrebbe effettivamente avuto intenzione di partecipare alla guerra contro
la Germania: tesi, questa, che non ci sentiremmo di condividere.
Gli angloamericani,
dal canto loro, “insistettero per una resa senza condizioni, presentandosi
come una forza soverchiante, che non aveva alcuna necessità di aiuti
esterni”(5), mentre in realtà le loro forze erano relativamente
modeste, tanto che lo sbarco a Salerno rischiò di concludersi con
un disastro, per la reazione delle truppe tedesche e -aggiungiamo- di reparti
italiani che non avevano accettato l'armistizio e continuavano a combattere.
Solo le artiglierie di grosso calibro delle navi britanniche impedirono
che le truppe da sbarco fossero ributtate a mare.
Sul piano politico,
la posizione inglese nei confronti di un armistizio con l'Italia -ipotesi
che era stata da tempo presa in considerazione da parte britannica- era,
sin dal 20 novembre 1942 (memorandum del Gabinetto di guerra inglese, preparato
da Eden), quella secondo cui “tra le due possibilità di una pace
separata o di un collasso interno, seguito da una occupazione dei tedeschi,
si preferiva la seconda”(6), cioè l'occupazione dell’Italia da parte
dei tedeschi piuttosto che la semplice uscita dell'Italia dal conflitto:
“Il Governo inglese intendeva imporre una pace punitiva, che impedisse
a qualunque futuro Governo italiano di avanzare richieste riguardanti la
propria integrità territoriale o il mantenimento delle colonie e
eventualmente ritornare a minacciare la potenza inglese nel Mediterraneo”(7).
Guerra senza quartiere contro l’Italia, quindi, e non soltanto contro il
fascismo, come ripeteva invece , con insistenza l'abile propaganda nemica.
Addirittura, da parte inglese “non vi era (...) alcuna pregiudiziale ideologica
nei confronti di personalità del regime fascista, tanto che l’unico
nome su cui il Governo inglese assunse una posizione possibilista fu quello
di Grandi”(8).
È superfluo
ripetere in questa sede come l'annuncio dell'armistizio sia stato accolto
con sentimenti contrastanti, e come molti siano stati coloro i quali lo
sentirono come un'onta e continuarono a combattere, prima ancora che sul
territorio non occupato dal nemico si costituisse la Repubblica Sociale
Italiana; anche perché, come è ben noto, non si trattò
di un “armistizio”, cioè della sospensione delle operazioni militari
contro il nemico, ma di capovolgimento di fronte, cioè di passaggio
allo stesso nemico, improvviso ed inatteso, dopo che il Governo Badoglio
aveva solennemente riaffermato che l'Italia, mantenendo fede alla parola
data, avrebbe continuato la guerra sino alla fine(9). E questa posizione,
in evidente malafede, fu mantenuta sino all'ultimo, ancora dopo che l'armistizio
era stato firmato e prima che esso fosse pubblicamente annunciato.
D’altra parte, neppure
il nemico stesso aveva chiesto il capovolgimento di fronte: anzi, proprio
il Comandante in capo nemico, gen. Eisenhower, aveva escluso che si potesse
chiedere agli italiani di schierarsi dalla parte degli angloamericani e
contro i tedeschi, in quanto ciò avrebbe costituito per essi un
disonore. Nel testo dell'armistizio breve, cioè quello firmato il
3 settembre 1943 e reso noto nel pomeriggio dell'8 settembre, “si prevedeva
la resa italiana, ma non il passaggio dalla parte alleata, perché
Eisenhower era convinto che non si poteva chiedere agli italiani una decisione
che egli stesso considerava contraria al codice d'onore militare”(10).
In un telegramma inviato al “Combined Chiefs of Staff, USA-GB” il 27 luglio
1943, Eisenhower affermava che gli italiani “considererebbero disonorevole
cercare di rivolgersi contro i loro antichi alleati e costringere alla
resa le formazione tedesche ora sul continente italiano”(11).
Da rilevare, altresì,
che soltanto l’“armistizio breve” fu reso noto l’8 settembre 1943, mentre
il testo dell'“armistizio lungo” sottoscritto il 29 settembre successivo
(ma l'obbligo di sottoscriverlo era già inserito in quello “breve”)
fu tenuto segreto e reso noto soltanto molto tempo dopo la fine della guerra,
nel novembre 1945 (12), tanto le clausole ne erano pesanti.
Con quell'armistizio,
il governo Badoglio, nato in forma anticostituzionale con il colpo di Stato
del 25 luglio 1943 e pertanto sino ad allora “governo di fatto”, cessava
di esistere anche come governo di fatto, avendo ceduto al nemico tutti
i poteri. I territori italiani man mano occupati dagli angloamericani furono
governati dall'AMGOT (governo Militare Alleato dei Territori Occupati),
poi AMG.
Ma di tutto questo
abbiamo avuto occasione di scrivere in altra occasione e ci sembra inutile
ripetere quanto già detto (13).
3) Gli avvenimenti
del 9 settembre 1943
E torniamo alle vicende
della Marina.
Nel pomeriggio del
7 settembre il Capo di Stato Maggiore e ministro della Marina impartì
verbalmente agli ammiragli comandanti in capo o comandanti autonomi di
forze navali e di dipartimenti, in una riunione tenuta a Roma, una serie
di ordini relativi esclusivamente alla reazione contro eventuali tentativi
di colpi di mano da parte dell'alleato tedesco, senza fare alcun cenno
ad un possibile armistizio. Fra quegli ordini era stabilito che le navi
da guerra avrebbero dovuto trasferirsi: “quelle dell'Alto Tirreno, in Sardegna,
Corsica, Elba; quelle del Basso Tirreno, in Sardegna; quelle di Taranto
restano, a posto, ma tutte in mar Grande o, se ordinato, a Cattaro; quelle
di Brindisi idem come sopra; quelle dell'Alto Adriatico a Sebenico o Cattaro
(il Cesare sia rifornito anche del personale strettamente necessario a
navigare)” (14): tutte; quindi, in porti italiani della penisola o delle
isole italiane od in quelli delle città italiane della Dalmazia,
allora presidiate anch'esse dalle forze armate italiane.
Nel testo dell'armistizio
sottoscritto il 3 settembre, era prescritto invece che le navi italiane
si trasferissero “in quelle località che saranno designate dal Comandante
in capo alleato”, e questa clausola era stata considerata particolarmente
importante da parte degli angloamericani: a Lisbona - scrive la Aga Rossi
- l’inviato italiano, gen. Castellano, “aveva cercato di eliminare dal
testo dell’armistizio la condizione della consegna della flotta in porti
sotto controllo alleato, sostenendo che la sua attuazione sarebbe stata
troppo umiliante. La sua controproposta di far concentrare le unità
in Sardegna fu però nettamente respinta. La richiesta italiana era
stata poi ribadita nei successivi colloqui, ma non fu mai presa in considerazione”(15).
De Courten era a conoscenza
delle trattative dal 3 settembre (cioè dal giorno stesso della firma
dell'armistizio) secondo la sua versione, dal 1° settembre secondo
la versione di Badoglio e Ambrosio (16); in ogni caso, però, Badoglio,
convocata una riunione dei tre ministri militari (Guerra, Marina, Aeronautica)
nel pomeriggio del 3 settembre, non li informò che l'armistizio
era stato già firmato, ma semplicemente che erano in corso trattative
(17).
Ambrosio, “con infondata
sicurezza confidò a de Courten che la flotta avrebbe dovuto andare
a La Maddalena”, ove si sarebbe recato anche il re (18). Successivamente,
il 6 settembre lo stesso Ambrosio trasmise a de Courten un promemoria inglese
inviato da Castellano, “con l'indicazione delle località sotto controllo
angloamericano verso le quali la flotta si doveva dirigere al momento della
proclamazione dell'armistizio. Dovevano essere Bona per la flotta situata
a La Spezia e Malta per le navi che si trovavano nei porti adriatici o
a Taranto. Di fronte alle proteste di de Courten per una decisione tanto
grave per la Marina, Ambrosio lo rassicurò ancora una volta dicendo
che “il documento doveva considerarsi lettera morta”, perché egli
aveva chiesto agli alleati di permettere alla flotta di recarsi alla Maddalena
e che “certamente non vi sarebbero state difficoltà” (19).
In effetti, un promemoria
inviato il 6 settembre al generale Castellano perché ne sottoponesse
il contenuto agli angloamericani indicava al primo punto: “Nei riguardi
della flotta, nelle conversazioni preliminari era stato considerato il
trasferimento delle nostre navi da guerra nei porti di Cagliari e La Maddalena.
È necessario insistere per questa soluzione, considerando che, data
la situazione morale dei nostri equipaggi, vi è la possibilità
che la flotta si rifiuti all'ordine di dirigere ai porti avversari” (20);
ma questa clausola era inserita nel testo dell'armistizio già sottoscritto
tre giorni prima e quindi pienamente accettata. Non solo, ma la richiesta
di lasciare le navi in porti italiani, già avanzate da Castellano
nei precedenti incontri, era stata sempre respinta (21). È quindi
incredibile che Ambrosio potesse veramente supporre che le clausole dell'armistizio
già sottoscritte potessero essere radicalmente modificate su un
punto così importante.
De Courten -scrive
la Aga Rossi- “si comportò fino alla fine come se dovesse preparare
la flotta allo scontro finale con il tradizionale nemico, l'Inghilterra”(22),
anzi, non si comportò “come se” dovesse prepararla, ma la preparò
effettivamente. In questo non vediamo alcun contrasto con l'informazione
che gli era stata data, circa l'esistenza di trattative in corso per un
armistizio (mentre gli era stato tenuto nascosto, per contro, che l'armistizio
era stato concluso e firmato già da cinque giorni).
Nel corso di trattative
per un armistizio le operazioni belliche continuano; anzi, spesso si intensificano,
perché ciascuno dei due avversari cerca di giungere alla sospensione
delle ostilità nelle condizioni migliori possibili. Se la Marina
italiana avesse inflitto gravi perdite al nemico e soprattutto se avesse
distrutto in mare le forze nemiche da sbarco dirette a Salerno -come era
possibile, anzi più che probabile da parte di una Marina decisa
ad attaccare senza tener conto delle proprie perdite, pronta al supremo
sacrificio, qual'era quella italiana l’8 settembre 1943-, indubbiamente
le condizioni di un eventuale armistizio avrebbero potuto essere meno svantaggiose
per l'Italia.
E difatti, nella mattinata
dell'8 settembre, come risulta dal documento sopra pubblicato, il Capo
di Stato Maggiore e ministro della Marina dette ordine alla Squadra da
battaglia di prepararsi ad attaccare, anche in cooperazione con l'alleato
tedesco, le forze nemiche che stavano sbarcando nel Golfo di Salerno.
Il ministro e Capo
di Stato Maggiore della Marina ebbe notizia dell'avvenuta firma dell'armistizio
quasi contemporaneamente all'annuncio ufficiale che ne dette alla radio
il comandante in capo nemico ed addirittura dopo che la notizia era stata
diramata dall'agenzia giornalistica inglese “Reuter”. Poco prima delle
ore 18 dell’8 settembre, fu convocata al Quirinale una riunione, presieduta
da Vittorio Emanuele III, cui parteciparono fra gli altri il Capo di Stato
Maggiore Generale ed i ministri delle tre Forze Armate. Soltanto in quel
momento, Ambrosio comunicò che l'armistizio era stato già
firmato sin dal 3 settembre, che Eisenhower lo avrebbe pubblicamente annunciato
alle 18.30 (cioè all’incirca contemporaneamente alla riunione in
corso in quel momento, tanto che “nel corso stesso della riunione si seppe
che il gen. Eisenhower stava facendo alla radio la preannunciata comunicazione”)
e che l'agenzia di stampa inglese ne aveva già diramato la notizia
(23).
Secondo la Aga Rossi,
in quella riunione al massimo livello, presenti Vittorio Emanuele III,
il capo del governo Badoglio, il Capo di Stato Maggiore Generale gen. Ambrosio,
il ministro della Real Casa Acquarone, il gen. Puntoni, il ministro degli
Esteri Raffaele Guariglia, i tre ministri delle forze armate (gen. Antonio
Sorice della Guerra, amm. Raffaele de Courten della Marina, gen. Renato
Sandalli dell'Aeronautica) ed il gen. Carboni, sarebbe stata messa in discussione
l'accettazione o meno dell’armistizio firmato cinque giorni prima, e sia
il sovrano che Badoglio, sarebbero “rimasti incerti fino alla fine”, mentre
“la proposta di Carboni di sconfessare l'armistizio e di conseguenza anche
Badoglio e di continuare la guerra a fianco dei tedeschi fu appoggiata
dalla maggioranza dei presenti” e soltanto alla fine si sarebbe deciso
di mantenere l’impegno (24). Stentiamo a crederlo.
De Courten scrive invece
di aver discusso con il capo di Stato Maggiore Generale “l’eventualità
di ordinare l'autoaffondamento delle unità della flotta, emanando
il prestabilito ordine convenzionale”, ma di aver desistito, dopo aver
preso visione di “un foglio allegato al testo dell'armistizio, nel quale
era esplicitamente affermato che il trattamento definitivo del quale avrebbe
fruito l'Italia sarebbe stato connesso con la lealtà con la quale
sarebbero state eseguite le clausole dell'armistizio”.
Non appena annunciato
l'armistizio, alle 19.50 dell'8 settembre fu diramato a tutte le navi in
mare, e soprattutto ai sommergibili che operavano nel Mediterraneo, nell'Oceano
Atlantico e nell'Oceano Indiano, l’ordine di sospendere le ostilità.
Citiamo ancora dalla
relazione del 12 febbraio 1944 dell'ammiraglio de Courten: “Presi poi contatto
telefonico con l'ammiraglio Bergamini, giacché mi pareva urgente
ed indispensabile esaminare la situazione morale della Squadra da battaglia,
la quale, essendo pronta ad andare a combattere, e quindi portata a quella
temperatura che era indispensabile per affrontare una prova suprema, veniva
a trovarsi da un momento all'altro nelle condizioni di dover invece praticamente
consegnarsi nelle mani del nemico. L'amm. Bergamini, colto di sorpresa
sia dalla notizia dell'armistizio sia dalle conseguenze che ne derivavano
nei riguardi della flotta, fece presente che lo stato di spirito degli
ammiragli e comandanti sottordini, che egli aveva convocato immediatamente,
non appena reso noto alla radio l'armistizio, era unanimemente orientato
verso l'autoaffondamento delle navi” (25).
La risposta di de Courten
fu che “si chiedeva loro un sacrificio anche più grave, quello di
adempiere lealmente e a qualunque costo alle dure condizioni dell'armistizio:
questo sacrificio amarissimo avrebbe potuto portare in avvenire grande
giovamento al Paese” e prospettò all'ammiraglio Bergamini l'opportunità
di trasferire la Squadra da battaglia a La Maddalena, cioè rimanendo
sempre in un porto italiano (26).
De Courten, quindi,
non ordinò alla Flotta di ottemperare alle clausole dell’armistizio,
cioè di recarsi in un porto nemico. Ciò, secondo la Aga Rossi,
“forse per timore di non essere obbedito o perché egli stesso contrario
ad una tale decisione”(27), e ci piace pensare che il massimo responsabile
della Marina italiana abbia adottato questa decisione per il secondo motivo.
Alle 2.30 antimeridiane
del 9 settembre, de Courten diramò a tutte le navi ed a tutti i
comandi un proclama in chiaro, in cui, dopo aver ricordato i sacrifici
e le glorie della Marina in quaranta mesi di guerra, aggiungeva: “È
possibile che altri duri doveri vi siano riservati, imponendovi sacrifici
morali rispetto ai quali quello del sangue appare secondario” (28).
Per tutta la mattina
del 9 settembre, Supermarina continuò a diramare alle varie unità
l'ordine di raggiungere La Maddalena, verso la quale stava dirigendosi
sin dalle due antimeridiane la Squadra da battaglia. Soltanto “fra le 13
e le 14 Supermarina, avvertita dell'occupazione di Maddalena da forze tedesche,
ordinò alla Forza Navale da battaglia di dirigere per Bona anziché
per Maddalena”(29), cioè verso un porto nemico nell’Africa settentrionale.
L'ordine precisava “senza consegnarsi (al nemico) nè abbassare bandiera”.
Alle 14.15 un ulteriore radiomessaggio diretto a tutte le navi in mare
ribadiva: “Non è contemplata cessione navi nè abbassamento
bandiera” (30).
Non è possibile
sapere quale sarebbe stata la decisione dell'ammiraglio Bergamini, il quale
aveva dichiarato che mai avrebbe portato le navi italiane a Malta, perché
poco più tardi, verso le 17, le stesse furono oggetto di un attacco
aereo, che fu ritenuto dapprima essere ad opera di aerei inglesi, mentre
successivamente si rivelò essere portato da aerei tedeschi. Come
è noto, fu colpita ed affondata la nave ammiraglia “Roma”, con la
quale cadde anche l'ammiraglio Bergamini.
A questo punto, occorre
sottolineare che le modalità per la resa delle nostre navi prevedevano
che esse innalzassero un “pennello” nero e dipingessero grandi dischi neri
sulla coperta, quale segnale di accettazione dell'armistizio. La Squadra
italiana da battaglia, al comando di Bergamini, non solo non si diresse
verso i porti nemici, disattendendo in tal modo la tassativa clausola dell’armistizio,
ma non innalzò neppure il pennello nero, né dipinse i dischi
neri sulla coperta delle navi (31). Quando subì l'attacco aereo,
come già abbiamo detto, la Squadra ritenne che gli attaccanti fossero
inglesi, come risulta chiaramente dai telegrammi scambiati con Supermarina.
Soltanto dopo l'attacco
tedesco e la morte di Bergamini, la Squadra adottò pennelli e dischi
neri, alle 07.00 del giorno successivo, 10 settembre, per ordine dell'Amm.
Oliva, che ne aveva assunto il comando.
Con l'attacco alla
Squadra italiana da battaglia, l’affondamento della corazzata “Roma” e
la morte dell'Ammiraglio Bergamini, i tedeschi resero involontariamente
un grande servizio agli angloamericani.
L’ipotesi che la flotta
italiana potesse rifiutarsi di raggiungere i posti nemici era tutt'altro
che infondata, dato lo spirito combattivo che animava ammiragli, comandanti
ed equipaggi di quella che è stata definita “una grande Marina”,
quale era in quell'epoca la Marina italiana.
Un'altra testimonianza
riportata dalla Aga Rossi è quella del capitano di fregata Andrea
Bianchi, comandante in seconda della corazzata “Andrea Doria”, allora a
Taranto, e che si riferisce quindi non alla Squadra a La Spezia, ma alla
divisione dislocata a Taranto. Il diario, riletto quarant'anni più
tardi, quando il Bianchi era ammiraglio di divisione (c.a.), ed orientato
in senso totalmente favorevole alla decisione di andare a Malta, riferisce
le reazioni della divisione navale che si trovava nel porto di Taranto,
alla quale Supermarina ordinò alle 6.40 del 9 settembre, di recarsi
a Malta.
Già la sera
dell’8 settembre il comandante della nave, capitano di vascello Francesco
Pesante, appresa la notizia dell'armistizio, aveva riunito il comandante
in seconda, il 1° direttore del tiro, capitano di corvetta E. Cinzo,
ed il direttore di macchina, ai quali aveva dichiarato: “Mancano ancora
ordini. Io però la nave a Malta non la porto in nessun caso. Che
ne dite?”. I due annuiscono. Io taccio. Il primo” (cioè il comandante)
continua “Studiate le modalità per l'affondamento della nave. Direttive:
sbarco tempestivo dei viveri e del vestiario, che sarà bene iniziare
subito. Mettere al sicuro la cassa e i documenti più importanti
dell'archivio. La maggioranza della gente a terra per tempo con le proprie
robe in scaglioni bene ordinati. Lasceremo a bordo il minimo personale
indispensabile per portare la nave in acque profonde ove affondarla senza
possibilità di recupero. Un rimorchiatore ci segua per raccoglierci”(32).
Alle nove del mattino
del 9 settembre, dopo aver ricevuto l'ordine di trasferire le navi a Malta
(ordine impartito, come abbiamo detto, alle 6.40 dello stesso 9 settembre),
fu tenuta una riunione dei comandanti sul “Duilio”, la nave da battaglia
su cui si trovava il comando della Divisione. Dal “Duilio” il comandante
del “Doria” telefonò al suo secondo: “Bianchi, pronto per l'eventualità
n. 1 “ (l’ affondamento)... “Ti darò conferma tra poco”. Proteste
di Bianchi, favorevole ad eseguire l'ordine di andare a Malta. “Poco dopo
arriva a bordo il col. Striano (uno dei capi servizio della Divisione).
Mi dice che i comandanti si sono rifiutati di portare le navi a Malta,
che lo metteranno per iscritto per scaricare la responsabilità dell'ammiraglio.
E affonderanno le navi in alto mare” (33).
Una volta deciso, invece,
di obbedire all’ordine di andare a Malta, non mancarono manifestazioni
contrarie di coloro i quali erano di diverso avviso. Bianchi cita, in particolare,
il DT, capitano di corvetta Ciuffo, ed il DM, maggiore del Genio navale
Ruoppolo. “Eppure sono due uomini che hanno sempre parlato male del fascismo
(...). Cercò di convincerli. Inutile” (34). Era dunque così
difficile comprendere che tutto quanto accadeva in quel momento non aveva
nulla a che fare nè con il fascismo nè con l’ antifascismo?
4) Conclusioni
Sul tema qui trattato
molto è stato scritto, sia dai protagonisti che da studiosi di storia
contemporanea. Non abbiamo quindi la pretesa di sostituirci ad essi; ma
ci è sembrato interessante riportare alcuni documenti, tratti dal
volume che, come ha scritto Renzo de Felice, costituisce “quanto di meglio
è oggi disponibile sotto il profilo documentario sulla vicenda armistiziale
italiana”. Questi documenti - alcuni dei quali, come abbiamo detto, già
noti, altri meno - possono offrire lo spunto ad ulteriori riflessioni.
Tanto più interessanti essi ci sembrano, in quanto l'autrice del
volume conclude che il trasferimento a Malta di gran parte della flotta
(ed è superfluo aggiungere che ci furono anche unità che
continuarono a combattere, unità che si autoaffondarono, comandanti
che si suicidarono dopo aver posto in salvo il proprio equipaggio) costituì
un “risultato soddisfacente” (35).
I marinai italiani
furono unanimi nel rifiutarsi di cedere le navi al nemico e di portarle
nei porti nemici. Soltanto l’affermazione che l'esecuzione di questa clausola
sarebbe stata determinante per le future sorti della Patria convinse, loro
malgrado, coloro i quali in un secondo momento ottemperarono all'ordine
ricevuto, ad obbedire all'ordine stesso, impartito con la reiterata affermazione
che non sarebbe stata ammainata la bandiera nè le navi sarebbero
state cedute al nemico.
Affermazione, quest'ultima,
assolutamente menzognera, in quanto è ben noto come la flotta italiana
sia stata poi ripartita fra i vincitori quale bottino di guerra.
Scrisse quasi a caldo,
nell'immediato dopoguerra Attilio Tamaro, nel ricostruire la storia degli
anni 1943-45: “... sul mare si compiva l'atto più sciagurato e più
determinante della catastrofe provocata dall'armistizio, cioè la
resa della flotta: atto d'una immensa tragedia e immane tragedia in se
stesso. Sprofondarono non nel loro mare, che le avrebbe gloriosamente inghiottite,
ma nella disonorevole disfatta, le belle navi, orgoglio e speranza della
Nazione, simbolo e strumento d'ogni più giusta sua idealità,
organi stupendi della sua vitalità, della sua difesa e della sua
potenza. Esse vennero consegnate agli inglesi, dopo essere state prima
trascinate con l'inganno e poi spinte dall'azione tedesca verso i porti
del nemico” (36).
Ma non fu la flotta
ad arrendersi: al contrario, la flotta l’8 settembre 1943 era pronta all'ultima
battaglia e all'estremo sacrificio ed anche dopo l’annuncio dell’armistizio
-come risulta al di là di ogni dubbio dai documenti che abbiamo
sopra riportato- rifiutò unanimemente di arrendersi e di consegnare
le navi al nemico, decidendo di autoaffondarle; così come, del resto
avevano fatto altre Marine in circostanze analoghe. Ai marinai italiani
fu chiesto di compiere un sacrificio ancor più grande di quello
di morire combattendo per la propria Patria, facendo loro credere che il
bene della Patria richiedesse di ottemperare alle clausole dell’armistizio.
La storia non si fa
con i "se"; ma non possiamo fare a meno di chiederci che cosa
sarebbe accaduto se la flotta avesse raggiunto porti italiani, come quelli
della Sardegna verso cui era diretta. E non possiamo fare a meno di ricordare
quanto avvenne a Roma: proprio fra le truppe che più valorosamente
si batterono contro i tedeschi il 9 settembre come i granatieri al comando
del gen. Solinas, si ebbero poco più tardi il maggior numero di
adesioni all'esercito repubblicano (compreso lo stesso gen. Solinas), non
appena sul territorio non occupato dal nemico si costituì la Repubblica
Sociale Italiana.
La scomparsa della
flotta italiana dal teatro del Mediterraneo modificò radicalmente
l'equilibrio marittimo mondiale.
In conclusione, dai
documenti riuniti nel volume di cui abbiamo sopra detto, risulta ancora
una volta che:
1) il tradimento ed
il passaggio al nemico furono tradimento non solo nei confronti dell'alleato
tedesco, ma -prima ancora e soprattutto- nei confronti dell'Italia e dei
soldati italiani di terra, di mare e di cielo;
2) un armistizio negoziato
avrebbe forse portato l'Italia fuori del conflitto: il passaggio al nemico
ebbe come conseguenza diretta lo svolgimento di una durissima guerra guerreggiata
sul suolo italiano, distruzioni immense, la guerra civile.
Non era difatti nei
piani originari del nemico uno sbarco nell’Italia continentale. Elemento
determinante che spinse gli angloamericani all'invasione del continente
fu proprio l'inizio delle trattative, sin dai primi di agosto, non per
un armistizio, ma per un capovolgimento di fronte (36).
Si verificò
pertanto esattamente l'ipotesi che il Comandante in capo nemico, gen. Eisenhower,
aveva enunciato soltanto per escluderla, tanto la considerava assurda.
Con l’“armistizio” del settembre 1943, non solo chi lo stipulò venne
meno alle leggi dell’onore militare, ma fece sì che la guerra guerreggiata
si spostasse sul suolo italiano.
La corazzata «Roma»
colpita da due bombe teleguidate P.C. 1400x da 1500 Kg, al momento dell'esplosione
della Santa Barbara di una delle torri trinate. Morirono 1266 uomini
d'equipaggio, 86 ufficiali, tra cui il com. della nave cap. vascello Adone
del Cima, l'amm. Carlo Bergamini e il suo stato maggiore.
NOTE
(1) Lo sbarco angloamericano
a Salerno.
(2) Documento 7.3 della
pubblicazione di Elena Aga Rossi che citiamo più avanti, pp. 362-376.
(3) Ivi, p. 368.
(4) Elena Aga Rossi,
L'inganno reciproco. L'armistizio tra l’Italia e gli angloamericani del
settembre 1943, Roma, ll Mulino, 1993, con il patrocinio del Ministero
per i Beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i Beni archivistici,
1993, pp. AV-475 (“Pubblicazioni degli Archivi di Stato”, serie “Fonti”,
vol. XVI).
Nel volume, che reca
una prefazione di Renzo de Felice in cui l'illustre storico afferma che
esso costituisce “quanto di meglio è oggi disponibile sotto il profilo
documentario sulla vicenda armistiziale italiana”, i documenti, tutti di
grande interesse, occupano le pagine 83-475 e sono preceduti da un ampio
studio dell'autrice (pp. 1-82). Anzi, il testo dal titolo “Il punto di
vista inglese”, che occupa le pagine 85-236, è in realtà
un ulteriore studio dell'autrice stessa, corredata da numerosi documenti
di parte britannica.
(5) E. Aga Rossi, op.
cit., p. 41. Cfr. anche p. 46.
(6) Ivi, p. 19.
(7) Ibidem.
(8) Ivi, p. 26. In
nota, però, la Aga Rossi cita anche opinioni opposte.
(9) Il proclama di
Badoglio, subito dopo essere stato nominato capo del governo, il 25 luglio
1943, afferma: “La guerra continua. L'Italia, duramente colpita nelle sue
provincie invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla
parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni”. Il proclama
fu largamente diffuso.
(10) E. Aga Rossi,
op. cit., p. 37.
(11) Ivi, nota 66,
e p. 147. Aggiungeva ancora Eisenhower: “Inoltre essi non otterrebbero
l’unica cosa alla quale sono interessati, e cioè la pace".
(12) Ivi, p. 73, nota
162.
(13) Elio Lodolini,
La illegittimità del Governo Badoglio. Storia costituzionale del
“quinquennio rivoluzionario” (25 Luglio1943 - 1 gennaio 1948) (tesi di
laurea in Diritto costituzionale, discussa nella Facoltà di Giurisprudenza
dell'Università di Roma il 29 novembre 1950), Milano, Gastaldi editore.
1953, pp. 175; ripubblicata senza modifiche in “StoriaVerità”, 1992-1993.
(14) E. Aga Rossi,
op. cit., doc.7.1, p.354.
(15) Ivi, p 55
(16) Ivi, p. 55-56.
(17) Ivi, p. 48.
(18) Ivi, p. 56.
(19) Ivi, p. 56.
(20) Documento 6.1.
del 6 settembre 1943, p. 337, ivi.
(21) Ivi, p. 56.
(22) Ibidem.
(23) Relazione de Courten
del 12 febbraio 1944, ivi, p. 369.
(24) E. Aga Rossi,
op cit., p 61: “Vi sono diverse versioni sul contenuto degli interventi,
ma sostanzialmente tutte concordano sul fatto che nonostante le minacce
di Eisenhower, la proposta di Carboni di sconfessare l’armistizio e di
conseguenza anche Badoglio e di continuare la guerra a fianco dei tedeschi
fu appoggiata dalla maggioranza di presenti”.
(25) Ivi, p. 370.
(26) Ibidem.
(27) Ivi, p. 65.
(28) Crediamo valga
la pena di riportare integralmente il proclama di de Courten:
“Marinai d’Italia:
Durante quaranta mesi
di guerra avete tenuto testa alla più potente Marina del mondo,
compiendo eroismi che rimarranno scritti a lettere d'oro nella nostra storia
e affrontando sacrifici di sangue che vi hanno meritato l'ammirazione della
Patria e il rispetto del nemico. Avreste meritato di poter compiere il
vostro dovere fino all'ultimo combattendo ad armi pari le forze navali
nemiche. Il Destino ha voluto diversamente: le gravi condizioni materiali
nelle quali versa la Patria ci costringono a deporre le armi. È
possibile che altri duri doveri vi siano riservati imponendovi sacrifici
morali rispetto ai quali quello del sangue appare secondario: occorre che
voi dimostriate in questi momenti che la saldezza del vostro animo è
pari al vostro eroismo e che nulla vi sembra insopportabile quando i destini
della Patria sono in gioco. Sono certo che in ogni circostanza saprete
essere all'altezza delle vostre tradizioni nell'assolvimento dei vostri
doveri. Potete dunque guardare fieramente negli occhi gli avversari di
quaranta mesi di lotta, perché il vostro passato di guerra ve ne
dà pieno diritto”.
(29) Relazione de Courten.
ivi, p. 374.
(30) I radiomessaggi
dello Stato Maggiore della Marina (Supermarina) dall’8 al 10 settembre
1943 costituiscono il doc. 7.2, pp. 355-361, del citato volume, tratti
dall'Archivio Storico della Marina, memoriale de Courten, cart. 1, fasc.
41. Anche dopo che l'amm. de Courten ebbe lasciato Roma con il Sovrano
e Badoglio, alle 6.30 del 9 settembre, i radiomessaggi furono diramati
da Roma a sua firma.
(31) Giorgio Giorgerini.
Da Matapan al Golfo Persico. La Marina militare italiana dal Fascismo alla
Repubblica. Milano, Mursia, 1989, definisce questo fatto “un piccolo dettaglio”
.
(32) E. Aga Rossi,
op. cit.. Documento 7.4. Memoria del capitano di fregata Giuseppe Bianchi
sugli avvenimenti dei giorni 8-12 settembre 1943, ivi, pp.377-394; il passo
qui sopra riportato è a p. 378.
Particolare dell'attacco:
nonostante l'accostata, la “Roma” è colpita da una seconda bomba.
Il diario prosegue
indicando come, una volta giunto l'ordine di andare a Malta, vi fossero
tentativi di opporvisi da parte dell’equipaggio tanto da dover far
armare elementi “sicuri” per impedire ogni resistenza da parte di chi non
voleva consegnare la nave al nemico.
Il documento si trova
nell'archivio della famiglia Bianchi-Moro.
(33) Memoria Bianchi,
p. 379.
(34) Memoria Bianchi,
p. 381.
(35) “Si è sempre
scritto che la flotta eseguì immediatamente le clausole dell'armistizio,
dirigendosi nei porti stabiliti. In realtà, come abbiamo visto,
la Marina era delle tre armi forse la meno preparata a ricevere l'ordine
così sorprendente e improvviso di consegnarsi al nemico. Forse per
timore di non essere obbedito o perché egli stesso contrario ad
una tale decisione, de Courten decise di non chiedere immediatamente alla
flotta l'attuazione dei termini d'armistizio, come la successione dei radiomessaggi
inviati tra la sera dell'8 e tutta la giornata del 9 fa chiaramente trasparire.
Innanzi tutto i testi di questi radiomessaggi mostrano che subito dopo
l'annuncio dell'armistizio Supermarina ordinò di cessare le ostilità
e di dirigersi ai porti di destinazione. Soltanto al Comando della V Divisione,
che si trovava a Taranto, venne ordinato di dirigersi a Malta. Alla Squadra
navale del Tirreno fu chiesto prima di eseguire gli ordini del “Promemoria
n. 1" (il quale stabiliva che le navi raggiungessero “i porti della
Sardegna, della Corsica, dell'Elba, oppure di Sebenico e Cattaro”: ivi,
p. 343) e poi di concentrarsi sull’isola della Maddalena in Sardegna, dove
avrebbe dovuto ricevere ulteriore ordini. Quando arrivò la notizia
che La Maddalena era stata occupata dai tedeschi, alla Squadra venne ordinato
di cambiare rotta e di dirigersi su Bona. Mentre stavano rettificando la
rotta vi fu l’attacco tedesco, che causò l’affondamento del Roma
e la perdita di quasi tutto l’equipaggio, incluso il comandante Bergamini.
Soltanto allora la flotta si diresse verso Malta. Fu anche grazie al fatto
che il Ministero della Marina continuò a mantenere i contatti con
le navi e ad impartire gli ordini, ricordando fra l’altro che secondo l’armistizio
la flotta avrebbe continuato a battere bandiera italiana e non sarebbe
stata smobilitata, che nella maggioranza dei casi venne mantenuta la disciplina.
La flotta non andò compatta a Malta, e molte navi furono perse,
ma si evitò che le unità si autoaffondassero, salvo alcuni
casi. Qualche unità si diresse alle Baleari e quasi tutta la marina
mercantile rimase nei porti, ma data la situazione il risultato fu soddisfacente”
(ivi, pp. 65-66).
(36) Attilio Tamaro.
Due anni di storia, 1943-45, vol. I, Roma, Tosi editore, 1948, p. 455.
(37) Nei piani originari
degli angloamericani era prevista soltanto l'occupazione della Sicilia,
per garantirsi il dominio del Mediterraneo. La conquista della Sicilia,
per lo meno nella parte occidentale, fu largamente facilitata dalla mafia
che, completamente distrutta dal fascismo, era risorta dalle sue ceneri
ad opera dei mafiosi americani tratti dalle galere degli Stati Uniti ed
infiltrati in Sicilia per riallacciare antiche connivenze ed assassinare
alle spalle gli ufficiali italiani preposti ai punti chiave della difesa
(ed i mafiosi, messi ai posti di comando dal nemico dopo l'occupazione,
vi si installarono solidamente).
Anche la Aga Rossi
afferma che il primo obiettivo degli angloamericani era stato quello di
eliminare l'Italia dal conflitto, ma “L'offerta da parte italiana di una
collaborazione militare aggiunse al primo obiettivo un secondo più
ambizioso, quello di un ritiro dei tedeschi e della liberazione dell'Italia
in tempi brevi” (E. Aga Rossi, op. cit., pp. 73-74), dove, ovviamente per
“liberazione” deve intendersi, secondo la terminologia attuale, l’occupazione
nemica di tutto il territorio nazionale.
STORIA VERITA’ N. 14 Marzo-Aprile
1994 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)